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Un cammino solo all’inizio. Resta ancora tanto da fare

Laura Caffagnini

Sat Jan 15 2022 23:00:00 GMT+0000 (Coordinated Universal Time)

Le ragioni per celebrare la Giornata del 17 gennaio ci sono ancora tutte, e una sempre migliore comprensione del rapporto della Chiesa con Israele può senz’altro aiutare a chiarificare l’identità cristiana stessa.

Le ragioni per celebrare la Giornata del 17 gennaio ci sono ancora tutte, e una sempre migliore comprensione del rapporto della Chiesa con Israele può senz’altro aiutare a chiarificare l’identità cristiana stessa. Ne è convinto il teologo Brunetto Salvarani. «Penso che la Giornata di dialogo ebraico-cristiano abbia ancora le stesse motivazioni per le quali nel 1990 i vescovi italiani – primi in Europa – decisero di istituirla». Proprio alla vigilia della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, la Giornata «evidenzia come l’incontro con Israele, radice santa della fede cristiana, sia prioritario, e sostiene l’impossibilità di qualsiasi sforzo ecumenico a produrre esiti concreti e profondi senza un costante invito a porci tutti insieme alla scuola di Israele». Sono queste le ragioni per cui il vescovo Alberto Ablondi e Maria Vingiani per parte cattolica, Tullia Zevi e rav Elio Toaff per parte ebraica, «introdussero questa novità, e fu una novità profetica davvero».

Ripartire, dopo il ciclo delle Dieci Parole e delle Megillot, con Geremia, per il teologo emiliano è una scelta strategica importante. «Penso che la scelta della “Lettera agli esiliati” sia decisamente figlia di questa lunga stagione di pandemia. Geremia si rivolge agli esiliati che stanno vivendo apparentemente un tempo sospeso, malato, perché vissuto nella terra del nemico per eccellenza: Babilonia. Questa porzione del popolo che è stata deportata rischia di sprofondare nella depressione e nella malinconia; come dice il salmo 137 non può cantare e vivere la dimensione della gratuità». Allora il profeta «chiede agli esiliati di dare corpo a quel tempo apparentemente sospeso ripartendo dai fondamentali: il lavoro, le relazioni, la casa. Quel tempo va riempito di senso anche in quella fase così terribile: Dio li aiuterà a trovare questo senso. E chiede loro di pregare per il benessere del paese in cui li ha fatti deportare. Probabilmente, così come in ogni esperienza umana, c’è un significato misterioso da decifrare».

Secondo Salvarani, se collocata in quello che papa Francesco ci invita a vedere come cambio d’epoca, la Lettera ha un grande senso: «si tratta di ricostruire dalle macerie, soprattutto dai germi di speranza. Come abitare la terra è un’indicazione significativa anche oggi per la Chiesa in Italia che sta vivendo un tempo di cammino sinodale il cui primo passaggio è l’ascolto. Qui c’è un’esperienza forte di richiesta di ascoltare addirittura la stranierità. Non è una piccola cosa».

Rispetto allo sviluppo del dialogo con gli ebrei, Salvarani ritiene che dopo la dichiarazione Nostra Aetate del 1965 siano stati fatti passi in avanti, ma è un percorso ancora all’inizio perché «ha alle spalle diciannove secoli di insegnamento del disprezzo, per cui sarebbe stato ingenuo pensare che in pochi anni pregiudizi secolari legati all’antigiudaismo diffuso potessero tramutarsi in un abbraccio. La Giornata è stata preziosissima ma non ha finito di operare. Sarebbe importante che non ce ne ricordassimo solo il 17 gennaio! Come aveva colto il cardinal Martini, la posta in gioco nel dialogo tra cristiani ed ebrei è molto ampia e tocca l’ecclesiologia, la liturgia e la missione. Non è ancora acquisito che il dialogo con gli ebrei è un elemento chiave dell’identità cristiana che necessita di un investimento nella pastorale». Ancora c’è da lavorare nella formazione e nel linguaggio.

Il teologo esemplifica: «Noi, il 25 gennaio, continuiamo a celebrare la cosiddetta conversione di Paolo di Tarso. Questo non fa i conti con un dato evidentissimo: Paolo non si converte da una religione all’altra perché all’epoca non ci sono due religioni ma tanti modi diversi di vivere la fede di Israele. La maniera rabbinica-farisaica, che poi prevarrà nella visione ebraica, è sempre nello stesso mondo in cui nasce la visione gesuanica o giudeo-cristiana. Paolo non rivendica di essere uscito dalla sua religione, anzi, rivendica costantemente le proprie origini. E allora perché non iniziamo a parlare della rivelazione di Dio a Paolo? Parlare di conversione è frutto di una errata
comprensione dei primi secoli del cristianesimo e di una retrodatazione di fratture e divisioni successive».

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